“Al posto sbagliato”: Francesco Pupa racconta l’infanzia massacrata dalla mafia

Dodici storie vere di bambini uccisi dalla criminalità organizzata. Un teatro che non consola, ma costringe a guardare.

Ci sono spettacoli che non si vorrebbero mai vedere. Eppure, quando accadono, ci si accorge che non si poteva fare altro che esserci. Al posto sbagliato, scritto e interpretato da Francesco Pupa, è uno di questi. Non consola, non spiega, non chiede. Racconta.

Siamo in un teatro qualunque. Potrebbe essere lo Spazio Diamante di Roma, dove ha debuttato, o il Grandinetti Comunale di Lamezia Terme, per l’anteprima della stagione AMA Calabria. Il luogo cambia, ma il silenzio è sempre lo stesso. Uno spazio vuoto, qualche scatola di legno impilata a formare torri instabili, una sedia, un’agenda rossa. 

Oggetti semplici, eppure pesanti. 

Come se contenessero storie che nessuno vorrebbe leggere. L’agenda è chiusa. Dentro ci sono le verità che si preferisce ignorare. Le scatole, Pupa le sposta, le usa: diventano pozzi, automobili, persino tombe. Trasformano lo spazio scenico in un campo di battaglia silenzioso.

Pupa appare nella penombra, una sigaretta accesa tra le dita. Il fumo si diffonde lento, come la sua voce quando inizia a raccontare. È il principio della mafia. Poi vengono i nomi, i luoghi, le date. La storia dei bambini morti ammazzati. Centotto, dice il libro di Bruno Palermo da cui è tratto lo spettacolo. Dodici sono quelli che Pupa porta sul palco. Li chiama per nome. Uno alla volta.

Francesco Pupa in “Al posto sbagliato” al Teatro Spazio Diamante. Foto @Giuseppe Pipita

Parla in dialetto siciliano per la mafia, in napoletano per la camorra, in pugliese per la Sacra Corona Unita, e infine in calabrese per la ’ndrangheta. Non per folklore. Ogni parola ha un’origine, e un dialetto serve a ricordare da dove viene la violenza. Ogni volta che cambia lingua, cambia anche voce e gesto. Un fazzoletto rosso, una coppola, un accessorio basta a delineare un personaggio. Un padre che racconta la morte del figlio. Un contadino che credeva in un futuro diverso.

Non c’è una morale evidente. Non c’è una denuncia urlata. Le storie parlano da sole. E raccontano che la mafia uccide anche i bambini. Contrariamente a quello che si è sempre detto. Donne e picciriddi non sono mai stati risparmiati. Questo spettacolo lo dimostra, uno per uno.

La scena resta ferma, ma in realtà cambia sempre. Le scatole diventano macchine. Diventano il pozzo dove furono gettati quattro ragazzi che avevano derubato la madre di un boss. Diventano tre automobili nella strage di Pizzolungo. Francesco Pupa le trasforma senza sforzo apparente, come chi apre un armadio e mostra vecchie fotografie.

Francesco Pupa in “Al posto sbagliato” al Teatro Spazio Diamante. Foto @Giuseppe Pipita

La luce non illumina. Sparisce spesso. Poi torna. Fa sembrare la scena ancora più vuota. Non c’è musica. Solo qualche canto popolare, spezzato, che arriva come una memoria lontana. È una scena scarna, ma basta a raccontare l’essenziale: il dramma di chi ha perso la vita in un gioco sporco tra adulti.

Alla fine il tempo si ferma. Si sentono solo i nomi delle vittime. Pronunciati ad alta voce. Uno dopo l’altro. Il pubblico non applaude subito. Resta in silenzio. Poi gli applausi arrivano, deboli, quasi un ringraziamento. Crescono. Diventano forti, scroscianti. Non solo per l’attore, ma per quello che si è avuto il coraggio di ascoltare.

Al posto sbagliato è uno spettacolo che non offre risposte. Mostra soltanto i fatti. E ci costringe a guardarli per quello che sono. Non un monito. Non una lezione. Solo la realtà, nuda. Senza redenzione.